RACCONTO: "LA VERGINE DELL' ETNA"



BUONASERA MIEI CARI E FORMIDABILI LETTORI...
IN QUESTA PIACEVOLE SERATA, VI RIPORTO UN ALTRO DEI ROVENTI E UTOPISTICI RACCONTI DELL' AUTORE SICILIANO JOE OBERHAUSEN-VALDEZ.



Non era bellissima, forse mediocre, oppure tutto l’opposto, a dispetto di quel che in realtà e da vicino si coglieva senza lasciarsi condizionare dalle dicerie; eppure aveva il sorriso di una scultura, la gioia naturale del legno intagliato e posizionato in un luogo impervio, sperduto tra le rocce del vulcano. Da lontano sembrava altissima, forse perché si elevava in una radura con pochi alberi, quasi un’isola arida in quella foresta.
Era una statua dimenticata.
Le rare volte che mi avventuravo a cercare funghi in quella zona, percorrevo sempre lo stesso sentiero che portava lassù, vicino alla grotta dove si diceva che la vergine avesse abitato.
Qualche anziano del paese ancora ricordava quella giovane, ma la chiamava con un appellativo diverso, e non tanto eccelso. Altri la descrivevano come una ragazza bellissima, dagli occhi talmente profondi e imperscrutabili da averne paura, slanciata, sensuale, attraente.
Ma per tutti, l’avvenente ragazza era semplicemente la puttanazza del bosco dei castagni. Per tutti tranne che per me.
Il 31 dicembre dell’anno millenovecento sarebbe giunto a breve. Il nuovo secolo non sarebbe stato di sicuro diverso dal giorno prima, o da quello avanti, almeno per me che non credevo nell’immutabilità degli eventi, dei pensieri, e perfino della mia anima, ammesso che io l’avessi.
Faceva freddo nell’officina di mio nonno, ma a me piaceva andare a trovarlo spesso, quando potevo, perché mi insegnava a forgiare il ferro alla fucina, che tra l’altro mi riscaldava da quella temperatura insopportabile e fredda, ossia per me che ero siciliano e desideroso di sole, avido della canicola bastarda che in estate mi faceva desiderare l’inverno, e viceversa. O forse no.
Da allora sono passati troppi anni per ricordarmi quelle sensazioni, di cui sinceramente adesso mi interessa ben poco. Quel che mi preme rievocare invece è quella ragazza.
Tutte le mattine percorreva sempre alla stessa ora la china che portava alla lunga scalinata che si affacciava sul corso principale del paese.
Aveva una capellatura foltissima discendente lungo le spalle fulva e fluente come quella di una fiera africana.
All’ora invariata e conosciuta mi affacciavo sulla strada, uscendo da quell’opificio fumoso, per respirare una boccata d’aria risanante, e soprattutto per gustare quei passi che mi avvertivano da lontano, nella via solitaria e dimenticata, che lei si approssimava.
Giunta all’altezza dell’officina, lei si girava a sinistra, mi guardava e lanciava un sorriso ammiccante, penetrante, sensuale forte forte.
Poi proseguiva e si perdeva al di là delle scale, col suo corpo sinuoso che scompariva in pochi attimi che avrei rigustato solo l’indomani.
Dove andava?! Allora non potevo saperlo, tuttavia intuivo che il posto era sicuramente un edificio che non mi sarebbe piaciuto, ma ad altri sicuramente sì. Pagavano anche per visitarlo.
Tornai all’interno, tra i fumi e il calore di una brace a cui avrei dovuto modellare un ferro per farlo diventare zappa, pala, o quello che ne sarebbe uscito fuori; e che cosa avrei prodotto non potevo saperlo. Ricordo solo che non creai un bel niente, tranne una vistosa vescica che mi procurò lo stringere quel ferro arroventato che mi abbagliò persino gli occhi.
Il nonno mi prese la mano e me la sospese a venti centimetri dalla brace: secondo lui non sarebbe uscita la bolla, ma erano cazzate. La nonna invece mi curò con le fette di patate sugli occhi deliranti, che fortunatamente guarirono come lei ben sapeva. Ma la mano no, era sminchiata.
Da quel giorno erano passati diversi mesi. La bella calura di giugno infuocava la pietra lavica che costituiva lo strato superficiale di ogni strada del paese. Riposavo all’ombra di un albero frondoso a sinistra del garage, in attesa che la ragazza scendesse per la via. La vidi che camminava lenta lenta, col suo incedere aggraziato, con movenze sempre uguali e fluide, estremamente sensuali. Quelle gambe che ancora oggi nella mia mente restano impresse e ineffabili.
Si voltò verso di me, guardandomi triste, proseguendo verso la scalinata. Dove andava? Boh…
Ma quel giorno la seguii.
La casa era alla periferia del paese, dopo il piazzale dove sorge la chiesa di Sant’Antonio, o un altro dei tremila santi riportati tra calendari, cappelle, strade e via dicendo.
Entrò da una porta di castagno sbiadito dal sole estivo e imputridito dalle piogge dell’inverno etneo. La curiosità mi spinse ad aprire la porta e a insinuarmi nel vestibolo.
A sinistra si scorgeva tra la penombra dell’ambiente fetido una testa quasi femminile che sporgeva da un sofà, coi piedi distesi su uno sgabello di color verde, probabilmente di un pianoforte che lì non c’era. Curava le unghie di mani vergognose, sgraziate e luride, messe in risalto da una lampada a cui se le mirava. Non mi vide entrare.
La scala conduceva al primo e unico piano. L’uscio era spalancato, una luce impetuosa rischiarava la stanza, arredata con un letto matrimoniale, un tappeto enorme sul pavimento, una vasca da bagno piazzata di fronte un divano di stoffa rosa.
La ragazza era appoggiata coi gomiti sul davanzale della finestra spalancata verso la grandiosità della chiesa, a testimonianza che dove cerchi la speranza trovi sempre un dio o il suo simulacro. La finzione che diviene adorazione, e infine monumento diffuso e gigantesco all’oscurità della superstizione.
Mi sentì entrare, si girò lentamente, distraendomi dalla visione di quel culo onnipotente che mi incantava, flagellando un elemento assopito delle mie carni che d’impeto si era risvegliato e quasi ululava, sanguigno e ferino.
Si avvicinò a me che la guardavo estasiato, tizzo incenerito dalla sua bellezza e nudità, dicendomi solo: “sì, sono una puttana!”.
Sature e umettate le iridi castane, lacrime fuggivano, discendendo copiose lungo il viso, mentre la luce del sole si affiochiva come per malia di un temporale estivo che oscurava il giorno.
In quell’attimo distolsi il mio sguardo da lei che chinava il capo e mi guardai attorno. Era un luogo in cui si perdevano ricordi di epoche passate. Un luogo in cui sentire l’olezzo dell’umido. Un luogo che un tempo era pieno di libri, che ormai giacevano come anime silenti, anime di carta, ammonticchiate come vite mute e abbandonate. Il lupanare era una biblioteca.
Le ore passarono selvagge e veloci sul letto in cui mi risvegliai accanto alla ragazza che dormiva quieta, immobile e serena, dopo l’ebrietà, divenuta ormai oasi di riposo dell’arsione affievolita.
Il crepuscolo, circonfuso di ombre, dischiomava ogni luce mediocre, ogni ronzio glutinoso, ogni tritume che fuori per la strada rumoreggiava come se fosse suono. Era Il canto di lode al santo, da parte di genti che si moltiplicavano nella piazza, omaggiando e idolatrando una statua di legno che si ergeva su un catafalco.
Salutai la ragazza, attraversai il nuovo postribolo, la venerazione pagana, una folla tumultuosa osannante un legno carico di ori, e mi diressi verso casa.
Da quell’estate si erano allontanate svariate settimane, alternando caldo piogge nuvole di cenere vulcanica, una stagione che laggiù in paese veniva percepita come autunno, e sul monte a guisa di chiaro e lampante inverno.
Faceva freddo come a gennaio, quella dimora mi evocava un sepolcro.
L’entrata della casupola, simile a una grotta, anche se presumibilmente aveva tutte le fattezze di una vera spelonca, era sbarrata da una “porta” in assi di legno mal inchiodate tra loro, come uno steccato, lasciava passare l’aria e ogni forma di vento e di freddo.
Penetrandovi vi scorsi un corridoio, illuminato da lumi artigianali, percorso dall’anima di un riverbero rumoroso rimbombante come un uragano.
Mi vennero incontro quattro creature quadrupedi e angeliche, ossia i suoi cani, fra i quali scodinzolava felice il suo fedele amico Tyson – un cane trasvola l’eternità, l’approfondisce, animandola come vera –  che lei adorava,  che mai avrebbe dimenticato, l’amore vero che non ha confini lacrime incertezze delusioni.
pelosi mi attorniarono graziosi e sorridenti, mentre scorgevo la ragazza che mi disse di inabissarmi nella stanza, in cui l’umidità dell’androne diveniva improvvisamente profumo di alloro e rosmarino, come mai avrei potuto pregustare o credere, ma come compresi allorché vidi un pentolino che su una stufa a legna evaporava una tisana ristoratrice e fragranze balsamiche.
La caverna era poco individuabile dall’esterno, immersa e assorta nella foresta, a contemplazione nascosta di una natura che si sprofonda nelle rocce, e dalla tenebra silente respira piante, osserva l’aria e l’etere, mischiata e connessa al suolo.
La luce del cielo, rischiarato dalla luna, dentro non vi giungeva, e da dentro non la si intravedeva, neppure da piccoli spiragli di apertura al mondo, sparsi tra gli anfratti delle pietre e dei legni, dai quali potevo solo annusare una foresta fittissima, il sentore del fumo del castagno che scoppiettava nel bruciatore di ghisa. Era un mormorio che mi risanava.
Sei gatti attenti ronfavano desti e sparsi in vari angoli, su sedie malconce, un tappeto di lana di pecora o capra, fiere sveglie e dormienti come solo loro possono essere, concentrate a godere del calore di una stanza in cui grondava l’oblio di un mondo che aveva tutto il distacco di una realtà apparente, un mondo succhiato e diruto dalla velocità che porta, molto prima, alla morte.
La casa accatastava una mescolanza di oggetti svariati, stracolma di libri, manoscritti, segno evidente che la ragazza era un’appassionata lettrice, una divoratrice di romanzi.
Avvicinandosi a una mensola prese un tomo e mi disse: “vieni, senti come profuma la carta, non vi vedi anche tu il riflesso di un passato sconosciuto, sperduto in un punto inesplorato dell’etere dei ricordi, che emerge si manifesta e rivive?!”.
Io scorsi davvero quella fragranza che fuoriusciva decomposta ai primi respiri, e poi diveniva un effluvio che rievocava rimpianti e ricordanze che non avrei saputo descrivere. Era come immergersi nella vita scomparsa di una creatura inafferrabile.
Il sibilo del bollire fuoriusciva dal recipiente in acciaio posto sulla stufa, rasentando l’enorme tubo che da qualche parte sbucava in superficie, evacuazione solitaria e ardente di un mostro addetto ai nocumenti aeriformi, persi e riassorbiti dall’ossigeno muscolare di fronde perenni.
La vergine,che mi aveva incantato condividendo le sensazioni del libro, mi trasmise sensuale e alacre, lussureggiante florida fiorente come un’argilla vivente, una meravigliosa attrazione felina, perché in quel momento la vidi implume e senz’altri veli, opera furente che mi aveva spinto nell’ardire, nella ricerca di quella dimora vetusta, opera che mutava la mia palpitazione in fiamma, scrosciava il sangue, scerpava il precordio.
Ruggì rapace la mia brama, che si avviticchiò alla sua, avvoltolandoci in un accapigliamento che ci fuse in un groviglio struggente,  e inesplicabilmente magico.
Ci compenetrammo nei corpi e nei sensi, come se quell’istante fosse vero.
Dopo l’amplesso iniziò a mutare quel qualcosa che seppure indistinto aveva un sentore autentico. Fra me e lei si nebulizzava il sogno, sciogliendo la sua effigie quasi irreale e vaga, nello sguardo e nel sorriso, nella materia senziente e pure nel respiro. Le palpebre battenti, vermiglie e vorticose smorivano nel pallore esangue. Gli occhi principiavano ad offuscarsi, o a svegliarsi come dopo un’inquietudine, con la ritornanza della ragione che slancia lesta e trista al vero, a terra, cambiando le visioni purpuree e turbinose in fiori succisi e spenti. Muta e brusca variazione di un ricordo chiuso e disilluso. Lei era ora immota e perenne, lignea e congiunta alla terra, congiunta al cielo.
Il novilunio scemava nel giorno, illuminava il sole la radura, irradiava sciogliendo la foschia.
Ella era ammantata di funghi, attorniata da rovi, come un simulacro, ed io ero ormai un vecchio, solo un vecchio che guardava la sua statua ariosa e libera, finalmente libera, tra i castagni dell’Etna.
Joe Oberhausen-Valdez

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