RACCONTO: "LA MADRE DI OGNI PAURA" GIANLUCA ARRIGHI
Buongiorno affiatato popolo lettore,oggi vi riporto un breve racconto nero del grande giallista,avvocato penalista romano Gianluca Arrighi. Il titolo di tale narrazione è: "La madre di ogni paura". Buona lettura miei cari amici.
LA MADRE DI OGNI PAURA
Il terrore di te mi paralizza. Lasciami in pace, ti supplico. Non riesco più a dormire. Dopo un sonno breve e tormentato mi sveglio all’improvviso con la sensazione che tu ti stia chinando sopra di me. Ormai riesco a passeggiare solamente di giorno, quando c’è il sole, tra le strade di Roma, perché nell’ombra penso che per te sia più facile avvicinarti.
Non vado più nei musei. Hanno troppi recessi isolati, dove tu potresti trovarmi.
I miei biglietti per i concerti rimangono lì, nel cassetto della scrivania. Nel teatro buio, quando la musica è un continuo crescendo, potresti facilmente soffocarmi mentre le mie grida, disperate, verrebbero sopraffatte dal suono degli strumenti.
Non sono mai stata una vigliacca, ho sempre affrontato con coraggio ogni avversità. Eppure non riesco ad affrontare la tua perfidia. Quando hai iniziato a minacciarmi, ho provato ad ignorarti. Dio solo sa quanto ci ho provato. Poi mi sono resa conto che le tue intenzioni erano mortali, che era la mia vita che tu volevi. Mi sono rifiutata di crederlo. Mi sono data della pazza, della visionaria.
La principale ragione per cui ti disprezzo, è che queste paure mi fanno dimenticare ogni altra cosa. Non bado più nemmeno al tempo. Un giorno la folle paura che ho di te mi gettò in preda al panico e telefonai alla polizia per avere protezione. Le mie parole piene di terrore produssero un effetto immediato. Di lì a poco due agenti erano già nel mio appartamento. Ma non avevo nulla da denunciare, soltanto vaghe minacce. Chiesi scusa ai poliziotti per averli fatti accorrere per niente.
Ti donerei ogni bene che posseggo per tenerti lontano da me. Ma non sono le cose di valore, quelle che a te interessano. E’ la mia vita, che vuoi. Di questo sono sicura. Eppure, mai prima d’ora avevo provato il senso dell’inevitabilità. La nostra esistenza ci offre sempre molti sentieri da percorrere ed è sempre possibile tornare indietro da un cammino già intrapreso.
Ma non c’è scelta, ora. Tutti i sentieri convergono fino a te. Conducono alla mia fine per mano tua.
Se almeno questi ultimi giorni fossero liberi da timori e il poco tempo che mi rimane da vivere non fosse rovinato da un’ansia costante.
Detesto questa codarda preoccupazione per la mia fine. Televisioni e giornali ci hanno abituato all’idea della morte: centinaia di persone spazzate via da un tornado, migliaia di morti per un virus nuovo e sconosciuto, le vittime della guerra, del terrorismo. Ma tutte queste tragedie sono amministrate dal fato, in modo quasi sempre impersonale, senza malizia.
Non c’è niente di impersonale, invece, nella tua malvagità verso di me.
Ti imploro di nuovo, lasciami in pace! Sono stata una figlia modello, obbediente nei confronti dei miei genitori, sempre rispettosa del prossimo. Sono stata una moglie fedele e affettuosa. Sono stata una madre coscienziosa e una cittadina dedita alle buone cause. E tu mi hai ridotta a piagnucolare come una bambina, mi sto umiliando per colpa tua. Sono qui a far valere le mie virtù, a gemere per suscitare la tua pietà, ad invocare la tua clemenza.
Stanno bussando alla mia porta. Ho il terrore che sia tu. Non voglio che tu mi prenda! Apro e, per fortuna, là fuori c’è mia figlia, Elisabetta. La guardo. Ogni volta resto meravigliata dalla sua bellezza.
“Mamma” – dice – “cosa succede? Ti ho telefonato ma non rispondevi. Poi mi sono resa conto che non ci sentivamo da una settimana. Lo so che hai tanto da fare, ma non eri mai stata tutto questo tempo senza chiamarmi! Perché non vieni a casa con me? Saremmo felici di averti con noi!”
Amo mia figlia, suo marito e i suoi bambini. Ma non posso infettare la loro casa con le mie paure. Non posso turbare la loro felicità. E tu potresti seguirmi anche lì.
Con una scusa declino l’invito di mia figlia, con la promessa di andare appena mi sarà possibile. Elisabetta mi abbraccia e, dopo che se n’è andata, mi metto a lavorare. Devo sempre trovare un modo per tenermi occupata, per far tacere il terrore che ho di te.
Ho bisogno di essere rassicurata, non da un professionista o da un caro amico, ma da una fonte particolare.
Esco, fermo un taxi. Mentre salgo cerco ancora di allontanare la mia paura.
Continuo a ripetermi che si tratta di un capriccio, di un qualcosa di sciocco. Ma provo anche indulgenza per me stessa. Qualsiasi casalinga annoiata potrebbe comprendere ciò che sto per fare. Dopo aver percorso svariati chilometri faccio fermare il taxi, dando al conducente una mancia cospicua, come se mi avesse fatto chissà quale favore.
Sono arrivata a destinazione. Fuori c’è un’insegna con una grossa mano segnata come una mappa stradale, ma le sue strade sono le linee della vita, quella dell’amore, del lavoro, del denaro. Più sotto, in piccoli caratteri, si legge: “Hamal: Passato, Presente, Futuro”.
Avevo preso in giro le mie amiche che erano state lì. Per loro andare dalla veggente Hamal era divertente, come cambiare pettinatura o trovare un’occasione inaspettata in un negozietto. Ma io non provo alcuna allegria. Sono qui per assoluta necessità.
Suono il campanello.
Dopo una lunga attesa, la porta si apre.
La signora Hamal ha l’aria di una persona presa alla sprovvista. C’è dell’unto attorno alla sua bocca, al di là del rossetto sbavato. La sua lingua fruga tra i denti, come alla ricerca di frammenti di cibo, e mi rendo conto che devo averla sorpresa mentre mangiava. Non c’è niente in lei che mi faccia pensare ad una sibilla in grado di predire il futuro, d’indovinare il passato o di darmi saggi consigli sul modo di agire.
Con un gesto autoritario mi indica una porta in fondo al corridoio e si affretta a precedermi. Una volta dentro la stanza, ingombra di mobili fino all’inverosimile, ci sediamo ad un tavolo.
“Cinquanta euro”, dice. La sua voce è impersonale come quella della cassiera di un supermercato che chiede l’importo della spesa ammassata dentro al carrello. Frugo nella borsetta, prendo il portafoglio e le consegno il denaro.
Aspetto che lei parli, che mi domandi perché sono lì, che cosa voglio. Ma c’è soltanto silenzio. Dopo un intervallo, sono io che sto per rivolgerle una domanda, quando lei esclama con tono rabbioso: “Non posso dirle niente, signora.”
“Non capisco” – mormoro – “Lei dice così tante cose alle altre persone, comprese diverse mie amiche…”
“A lei, signora, non posso dire proprio niente” – ripete la veggente – “Si riprenda i suoi soldi e se ne vada”. Con un gesto repentino mi ridà la banconota da cinquanta euro.
Non mi muovo.
Lei, allora, mi investe con un grido: “Vada via, ho detto! Si allontani subito da questa casa!”, urla con le labbra stirate di collera.
Me ne vado.
Una volta in strada mi metto a correre. Salgo sopra un autobus, poi scendo.
Cammino nevroticamente sui marciapiedi, urto contro la gente spingendola da parte. Sembro una pazza. Infine mi perdo tra la folla di un grande centro commerciale.
Sto cercando di sfuggire a te.
Poi prendo di nuovo un taxi e mi faccio riportare a casa, dove sarò nuovamente inghiottita dall’atrio dello stabile in cui abito. So che nessuno dei miei espedienti, nessuno dei miei lunghi giri ti ha tratto in inganno e che tu potresti essere in agguato dentro uno degli ascensori.
Non voglio rischiare di rinchiudermi in una di queste cabine. Lascio gli ascensori e mi dirigo verso le scale. Ad ogni pianerottolo sono tentata di fermarmi per riprendere fiato, ma la paura di te mi costringe a correre senza sosta.
Giunta davanti alla porta del mio appartamento, brancolo dentro la borsetta per cercare la chiave. Nonostante la mano mi tremi come una foglia, riesco ad inserire la chiave nella toppa e ad entrare in casa.
Con la porta alle spalle chiusa a doppia mandata, scoppio a piangere. La paura mi ha lasciata esausta. Resto immobile, come se ogni mio movimento possa ridestare la tua collera.
Alla fine, esausta, mi lascio cadere sul letto.
Il vento soffia in casa attraverso le finestre, le tende fluttuano e si gonfiano. Una si tende fino a sfiorarmi la guancia.
Ho lasciato le finestre aperte, accanto al mio letto, per te. E proprio all’esterno di quelle finestre c’è la scala anti-incendio. E’ un folle ed incoerente invito rivolto a te, affinché tu possa entrare. Un aperto segnale di benvenuto.
Guardo l’orologio. Un’altra notte è passata. Il leggero senso di conforto lascia subito il posto allo sgomento del pensiero di un’altra giornata che vivrà nella paura di te.
E se decidessi di arrendermi? Sono così spossata, stanca, sfinita.
Non ne posso più di stare con il cuore sospeso.
Forse mi arrenderò.
O forse no.
Tra poco sarà qui Elisabetta. Lei mi proteggerà. Le ho lasciato le chiavi di casa l’ultima volta. Mi sembra già di sentirla entrare… Ma tu vattene! Stai lontano da me! Vai via…vai via…..vai via….
Non vado più nei musei. Hanno troppi recessi isolati, dove tu potresti trovarmi.
I miei biglietti per i concerti rimangono lì, nel cassetto della scrivania. Nel teatro buio, quando la musica è un continuo crescendo, potresti facilmente soffocarmi mentre le mie grida, disperate, verrebbero sopraffatte dal suono degli strumenti.
Non sono mai stata una vigliacca, ho sempre affrontato con coraggio ogni avversità. Eppure non riesco ad affrontare la tua perfidia. Quando hai iniziato a minacciarmi, ho provato ad ignorarti. Dio solo sa quanto ci ho provato. Poi mi sono resa conto che le tue intenzioni erano mortali, che era la mia vita che tu volevi. Mi sono rifiutata di crederlo. Mi sono data della pazza, della visionaria.
La principale ragione per cui ti disprezzo, è che queste paure mi fanno dimenticare ogni altra cosa. Non bado più nemmeno al tempo. Un giorno la folle paura che ho di te mi gettò in preda al panico e telefonai alla polizia per avere protezione. Le mie parole piene di terrore produssero un effetto immediato. Di lì a poco due agenti erano già nel mio appartamento. Ma non avevo nulla da denunciare, soltanto vaghe minacce. Chiesi scusa ai poliziotti per averli fatti accorrere per niente.
Ti donerei ogni bene che posseggo per tenerti lontano da me. Ma non sono le cose di valore, quelle che a te interessano. E’ la mia vita, che vuoi. Di questo sono sicura. Eppure, mai prima d’ora avevo provato il senso dell’inevitabilità. La nostra esistenza ci offre sempre molti sentieri da percorrere ed è sempre possibile tornare indietro da un cammino già intrapreso.
Ma non c’è scelta, ora. Tutti i sentieri convergono fino a te. Conducono alla mia fine per mano tua.
Se almeno questi ultimi giorni fossero liberi da timori e il poco tempo che mi rimane da vivere non fosse rovinato da un’ansia costante.
Detesto questa codarda preoccupazione per la mia fine. Televisioni e giornali ci hanno abituato all’idea della morte: centinaia di persone spazzate via da un tornado, migliaia di morti per un virus nuovo e sconosciuto, le vittime della guerra, del terrorismo. Ma tutte queste tragedie sono amministrate dal fato, in modo quasi sempre impersonale, senza malizia.
Non c’è niente di impersonale, invece, nella tua malvagità verso di me.
Ti imploro di nuovo, lasciami in pace! Sono stata una figlia modello, obbediente nei confronti dei miei genitori, sempre rispettosa del prossimo. Sono stata una moglie fedele e affettuosa. Sono stata una madre coscienziosa e una cittadina dedita alle buone cause. E tu mi hai ridotta a piagnucolare come una bambina, mi sto umiliando per colpa tua. Sono qui a far valere le mie virtù, a gemere per suscitare la tua pietà, ad invocare la tua clemenza.
Stanno bussando alla mia porta. Ho il terrore che sia tu. Non voglio che tu mi prenda! Apro e, per fortuna, là fuori c’è mia figlia, Elisabetta. La guardo. Ogni volta resto meravigliata dalla sua bellezza.
“Mamma” – dice – “cosa succede? Ti ho telefonato ma non rispondevi. Poi mi sono resa conto che non ci sentivamo da una settimana. Lo so che hai tanto da fare, ma non eri mai stata tutto questo tempo senza chiamarmi! Perché non vieni a casa con me? Saremmo felici di averti con noi!”
Amo mia figlia, suo marito e i suoi bambini. Ma non posso infettare la loro casa con le mie paure. Non posso turbare la loro felicità. E tu potresti seguirmi anche lì.
Con una scusa declino l’invito di mia figlia, con la promessa di andare appena mi sarà possibile. Elisabetta mi abbraccia e, dopo che se n’è andata, mi metto a lavorare. Devo sempre trovare un modo per tenermi occupata, per far tacere il terrore che ho di te.
Ho bisogno di essere rassicurata, non da un professionista o da un caro amico, ma da una fonte particolare.
Esco, fermo un taxi. Mentre salgo cerco ancora di allontanare la mia paura.
Continuo a ripetermi che si tratta di un capriccio, di un qualcosa di sciocco. Ma provo anche indulgenza per me stessa. Qualsiasi casalinga annoiata potrebbe comprendere ciò che sto per fare. Dopo aver percorso svariati chilometri faccio fermare il taxi, dando al conducente una mancia cospicua, come se mi avesse fatto chissà quale favore.
Sono arrivata a destinazione. Fuori c’è un’insegna con una grossa mano segnata come una mappa stradale, ma le sue strade sono le linee della vita, quella dell’amore, del lavoro, del denaro. Più sotto, in piccoli caratteri, si legge: “Hamal: Passato, Presente, Futuro”.
Avevo preso in giro le mie amiche che erano state lì. Per loro andare dalla veggente Hamal era divertente, come cambiare pettinatura o trovare un’occasione inaspettata in un negozietto. Ma io non provo alcuna allegria. Sono qui per assoluta necessità.
Suono il campanello.
Dopo una lunga attesa, la porta si apre.
La signora Hamal ha l’aria di una persona presa alla sprovvista. C’è dell’unto attorno alla sua bocca, al di là del rossetto sbavato. La sua lingua fruga tra i denti, come alla ricerca di frammenti di cibo, e mi rendo conto che devo averla sorpresa mentre mangiava. Non c’è niente in lei che mi faccia pensare ad una sibilla in grado di predire il futuro, d’indovinare il passato o di darmi saggi consigli sul modo di agire.
Con un gesto autoritario mi indica una porta in fondo al corridoio e si affretta a precedermi. Una volta dentro la stanza, ingombra di mobili fino all’inverosimile, ci sediamo ad un tavolo.
“Cinquanta euro”, dice. La sua voce è impersonale come quella della cassiera di un supermercato che chiede l’importo della spesa ammassata dentro al carrello. Frugo nella borsetta, prendo il portafoglio e le consegno il denaro.
Aspetto che lei parli, che mi domandi perché sono lì, che cosa voglio. Ma c’è soltanto silenzio. Dopo un intervallo, sono io che sto per rivolgerle una domanda, quando lei esclama con tono rabbioso: “Non posso dirle niente, signora.”
“Non capisco” – mormoro – “Lei dice così tante cose alle altre persone, comprese diverse mie amiche…”
“A lei, signora, non posso dire proprio niente” – ripete la veggente – “Si riprenda i suoi soldi e se ne vada”. Con un gesto repentino mi ridà la banconota da cinquanta euro.
Non mi muovo.
Lei, allora, mi investe con un grido: “Vada via, ho detto! Si allontani subito da questa casa!”, urla con le labbra stirate di collera.
Me ne vado.
Una volta in strada mi metto a correre. Salgo sopra un autobus, poi scendo.
Cammino nevroticamente sui marciapiedi, urto contro la gente spingendola da parte. Sembro una pazza. Infine mi perdo tra la folla di un grande centro commerciale.
Sto cercando di sfuggire a te.
Poi prendo di nuovo un taxi e mi faccio riportare a casa, dove sarò nuovamente inghiottita dall’atrio dello stabile in cui abito. So che nessuno dei miei espedienti, nessuno dei miei lunghi giri ti ha tratto in inganno e che tu potresti essere in agguato dentro uno degli ascensori.
Non voglio rischiare di rinchiudermi in una di queste cabine. Lascio gli ascensori e mi dirigo verso le scale. Ad ogni pianerottolo sono tentata di fermarmi per riprendere fiato, ma la paura di te mi costringe a correre senza sosta.
Giunta davanti alla porta del mio appartamento, brancolo dentro la borsetta per cercare la chiave. Nonostante la mano mi tremi come una foglia, riesco ad inserire la chiave nella toppa e ad entrare in casa.
Con la porta alle spalle chiusa a doppia mandata, scoppio a piangere. La paura mi ha lasciata esausta. Resto immobile, come se ogni mio movimento possa ridestare la tua collera.
Alla fine, esausta, mi lascio cadere sul letto.
Il vento soffia in casa attraverso le finestre, le tende fluttuano e si gonfiano. Una si tende fino a sfiorarmi la guancia.
Ho lasciato le finestre aperte, accanto al mio letto, per te. E proprio all’esterno di quelle finestre c’è la scala anti-incendio. E’ un folle ed incoerente invito rivolto a te, affinché tu possa entrare. Un aperto segnale di benvenuto.
Guardo l’orologio. Un’altra notte è passata. Il leggero senso di conforto lascia subito il posto allo sgomento del pensiero di un’altra giornata che vivrà nella paura di te.
E se decidessi di arrendermi? Sono così spossata, stanca, sfinita.
Non ne posso più di stare con il cuore sospeso.
Forse mi arrenderò.
O forse no.
Tra poco sarà qui Elisabetta. Lei mi proteggerà. Le ho lasciato le chiavi di casa l’ultima volta. Mi sembra già di sentirla entrare… Ma tu vattene! Stai lontano da me! Vai via…vai via…..vai via….
“Di cosa aveva davvero paura mia mamma?”, chiese Elisabetta tra le lacrime, cercando conforto e risposte nello sguardo rassicurante del dottor Damiani, psichiatra e psicoterapista.
“Elisabetta, smetti di piangere. Come sai, tua madre non era solo una mia paziente. Lei ed io eravamo anche grandi amici. C’era una sola cosa al mondo che la ossessionava e che lei potesse temere: la morte”
“Elisabetta, smetti di piangere. Come sai, tua madre non era solo una mia paziente. Lei ed io eravamo anche grandi amici. C’era una sola cosa al mondo che la ossessionava e che lei potesse temere: la morte”
Gianluca Arrighi
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