RACCONTO: "UN BRUSCO RISVEGLIO". AUTORE: GIANLUCA ARRIGHI.




Buongiorno miei cari lettori incalliti,oggi vi riporto un racconto da brivido del grande giallista e thrillerista romano GIANLUCA ARRIGHI, dal titolo "UN BRUSCO RISVEGLIO".
Buona lettura miei cari amici...




UN BRUSCO RISVEGLIO

Renato Ferretti si sentiva stordito, confuso, spaesato.
Era come se, invece di trovarsi sdraiato sopra un letto, stesse levitando a diversi metri dal suolo.
I suoi ricordi erano ancora annebbiati e, di tanto in tanto, lo strappavano al sonno innaturale dei sedativi.
Il volto del medico, chino su di lui, aveva una fisionomia imprecisa e sfuocata. La scansione del tempo sembrava rallentata.
Poi, all’improvviso, Renato risentì nella sua testa il rumore assordante dei vetri dell’auto che andavano in frantumi.
E iniziò a ricordare.
Cosa era accaduto?
Dovevano essere circa le due di notte quando aveva perso il controllo della sua fuoriserie che, dopo aver sbandato, si era schiantata contro un grosso albero.
Rivide il volto sanguinante di Eva, sua moglie, riversa all’indietro sul sedile del passeggero e rimasta priva di sensi.
In lontananza si cominciavano a sentire le stridule sirene dei mezzi di soccorso, chiamati probabilmente da qualche altro automobilista che aveva assistito all’incidente.
Eva respirava ancora, di questo ne era sicuro.
Renato rivide gli infermieri mentre estraevano dalla macchina sua moglie e la adagiavano sulla barella, prima di caricarla sopra l’ambulanza. E ricordò anche di aver sperato che non fosse accaduto nulla al bambino che sua moglie portava in grembo.
La voce profonda del medico lo riportò bruscamente alla realtà.
“Signor Ferretti, mi spiace. Temo di doverle dare una brutta notizia”. Renato si sollevò mettendosi a sedere sul letto. Ora si sentiva bene, lucido, reattivo. Non aveva riportato alcuna lesione né avvertiva dolori, all’infuori di un leggero mal di testa.
“Come sta mia moglie?” chiese con apprensione allo sconosciuto dottore che si trovava in piedi accanto a lui.
Il medico corrugò la fronte.
“La notte scorsa ha firmato un modulo con cui ci autorizzava ad operare la signora Ferretti, ricorda?”
“Sì…” rispose Renato rammentando vagamente come gli avessero detto che era necessario un intervento chirurgico.
Il dottore proseguì: “Sua moglie aveva riportato danni irreversibili al cervello. Abbiamo deciso di tentare almeno di salvare il bambino”.
Già, il bambino.
“Ma che importanza poteva avere il bambino in quel momento?” gridava la mente di Renato.
Lui amava follemente Eva, mentre il feto era di appena sette mesi. Cosa diavolo avevano fatto in quell’ospedale?
Il medico continuò: “Abbiamo effettuato un taglio cesareo. Il bambino è vivo, è un maschio. Adesso è in incubatrice, nell’unità intensiva del reparto maternità. Più tardi potrà vederlo”.
Renato si portò le mani sul volto. Lui avrebbe solo voluto vedere Eva, la sua Eva. Di quel neonato ora non gli importava nulla.
“Dottore, dov’è mia moglie?” chiese con voce flebile, intuendo già quale sarebbe stata la straziante risposta.
“E’ morta” rispose il medico appoggiandogli dolcemente una mano sulla spalla.
L’uomo sentì come se la testa stesse per esplodergli.
Ripensò al sorriso di Eva, al loro amore, agli anni trascorsi insieme, a quella felicità ormai irrimediabilmente perduta. E in quel preciso momento Renato Ferretti, senza neanche accorgersene, scoppiò in un pianto disperato.
Qualche ora dopo arrivò un’infermiera, che gli chiese come si sentisse e se volesse scendere nel reparto maternità per vedere il bambino.
“Certo, è mio figlio” disse Renato, avvertendo però nuovamente quella strana sensazione alla testa. Non era un vero e proprio dolore, ma solo fortissima pressione sulle tempie. Dopo qualche secondo quel malessere scomparve, Renato si sistemò su una sedia a rotelle e fu pronto a dirigersi, sospinto dall’infermiera, verso la nursery.
Giunto in reparto, lo vide.
Il piccolo si trovava dentro una specie di gabbia di vetro, era tutto raggrinzito, magrissimo, con un tubo nel naso e con una benda attorno alla vita. Sembrava che respirasse con affanno, aveva un colore livido ed era tutto chiazzato.
“Mio Dio, è orribile”- disse Renato – “signorina, mi riporti nella mia stanza, per favore”.
Fu allora che risentì, violenta più che mai, quella strana pressione nella testa.
L’infermiera non fece alcun commento alla reazione di Renato, pensando che l’uomo, avendo appena perso la moglie, fosse ancora sotto shock. Senza dire una parola lo riaccompagnò in reparto e lo aiutò a rinfilarsi nel letto. Renato si mise disteso, con gli occhi chiusi. Portarono il pranzo, ma lui non toccò cibo.
In serata passò il medico che, dopo aver visionato la cartella clinica, gli comunicò con tono pacato: “Signor Ferretti, lei non può ancora essere dimesso. Finora tutti gli esami hanno dato esito negativo, ma dobbiamo ancora tenerla in osservazione. Ora però devo parlarle del bambino. Non sta bene, presenta una malformazione. E’ affetto da spina bifida: la sua colonna vertebrale presenta una biforcazione nella parte terminale. Non possiamo ancora stabilire quale sarà l’entità del danno, ma la situazione non è delle migliori.”
Renato venne pervaso da un violento attacco di panico.
Iniziò ad urlare: “Cosa mi rimane adesso? Un figlio deforme? Costretto a rimanere per sempre inchiodato su una sedia a rotelle? E voi, per far vivere questa specie di mostro, avete sacrificato la vita della mia Eva?”
Subito accorse un’infermiera che gli somministrò un tranquillante.
“Cerchi di calmarsi, questo la farà sentire meglio” disse il medico.
“Dove hanno portato mia moglie?” chiese Renato, iniziando ad avvertire il rilassamento dovuto al sedativo iniettatogli per endovena.
“L’hanno portata nella cappella dell’ospedale, qui sotto, al piano terra. Abbiamo avvisato i parenti più prossimi e i funerali si svolgeranno domani pomeriggio. Ora mi dia ascolto, provi a riposare un po’”, concluse il medico congedandosi da lui.
Quella notte gli diedero alcune compresse per dormire, ma non ebbero alcun effetto. Di nuovo giunse quella sensazione di pressione alla tempie, ma questa volta era quasi gradevole.
Renato Ferretti era del tutto sveglio, immerso nei suoi pensieri. Gli sembrò che la mente si fosse schiarita. Ora sapeva ciò che doveva fare.
Attese fino alle quattro di notte.
Nell’ospedale regnava il silenzio più assoluto.
Scese dal letto e si avviò verso la porta del reparto. Se qualcuno l’avesse visto, avrebbe semplicemente spiegato che stava andando in bagno.
Quando entrò nella cappella, al piano terra, stringeva tra le braccia un piccolo fagotto avvolto in una coperta bianca.
Davanti all’altare era adagiata una bara. Era lì dentro che si trovava la sua amata Eva.
Renato riscontrò con sollievo come la cassa non fosse stata ancora sigillata. Sollevò il coperchio e dentro vide sua moglie.
Il corpo era coperto sino al mento, il viso contuso, i lunghi capelli biondi tirati in avanti per coprire il più possibile le ferite.
Rimase ad osservarla per qualche istante.
Allungò la mano e le accarezzò una guancia.
Eva era fredda come il ghiaccio.
Poi si girò, raccolse il fagotto e liberò dalla coperta il viso del bambino. Sembrava vecchio e avvizzito, con la faccia più bianca di quanto non avesse notato il giorno prima.
Adagiò il piccolo sul seno della mamma e notò come sulla testa del neonato si vedesse il pulsare del sangue, debole ma regolare, attraverso la fontanella aperta. Fuori dall’incubatrice quell’esserino avrebbe continuato a vivere solo per pochi minuti.
La luce violacea che penetrava attraverso la finestra della cappella inondò i due occupanti della bara.
L’alba era vicina.
Renato risistemò il coperchio del feretro, senza far rumore e con precisione. Si diresse quindi verso la porta per raggiungere nuovamente il reparto.
Giunto nel suo letto, si infilò sotto le coperte. All’improvviso si sentiva stanco, ma allo stesso tempo aveva la macabra e folle consapevolezza di aver fatto la cosa giusta.
“Ora sono di nuovo insieme, non ho più alcun motivo per preoccuparmi. Qualsiasi problema avesse il bambino, adesso è con sua madre. Lei lo stringe tra le braccia e lo terrà così per sempre. Tutto è risolto. Finalmente”.
Questo fu il suo ultimo pensiero prima di sprofondare in un sonno senza sogni.
Il giorno dopo Renato venne svegliato da un gran trambusto. Medici e infermieri sembravano come impazziti. Naturalmente i sanitari dovevano aver notato la scomparsa del bambino.
Si alzò dal letto e vide una giovane infermiera in uno stato di evidente agitazione.
“Cosa sta succedendo?” chiese Renato.
“E’ scomparso un neonato dall’unità intensiva del reparto maternità! E’ come se fosse svanito nel nulla, nessuno sa come sia potuto accadere!”
Renato la fissò malinconicamente.
“Un maschietto?” le chiese con un nodo stretto nella gola.
Lei lo guardò, aveva gli occhi lucidi: “No signore, una bambina. Una neonata prematura. E’sparita, così”.
L’uomo fu assalito dall’orrore, rimase pietrificato. Un sibilo pungente gli riempì le orecchie, la pressione alle tempie divenne insopportabile. Poi solamente il vuoto.
Quella devastante sensazione di morte avrebbe accompagnato Renato Ferretti sino all’ultimo istante della sua vita.



Buona giornata...
Buona lettura...
La libraia matta90...

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